mercoledì 27 dicembre 2017

Fino al 7 gennaio Kounellis "Impronte" nelle sale di Palazzo Poli Roma




L’Istituto Centrale per la Grafica presenta nelle sale di Palazzo Poli Roma, la mostra KOUNELLIS IMPRONTE dedicata all’opera grafica del Maestro recentemente scomparso. L’artista, protagonista indiscusso di un’arte che ha rivoluzionato il linguaggio pittorico a partire dagli anni Sessanta, aveva personalmente scelto le opere da esporre e si accingeva a seguirne l’allestimento quando è venuto a mancare il 16 febbraio scorso. Sulla base delle scelte stilistiche esercitate dal Maestro e per sua espressa volontà, l’Istituto, in accordo con l’Archivio Kounellis, espone nella mostra a cura di Antonella Renzitti, l’ultimo lavoro grafico realizzato nel 2014 con la Stamperia d’Arte di Corrado e Gianluca Albicocco di Udine e due cicli di opere, The Gospel according to Thomas del 2000 e Opus I del 2005, entrambi realizzati a Jaffa con la stamperia israeliana Har-El Printers & Publisher. Il libro d’artista The Gospel according to Thomas con le dodici terragraph costituisce una rivisitazione dell’artista del rapporto tra l’arte contemporanea e il Sacro e “mostra un disegno di aspra elementarità ma di forza arcaica e linguisticamente primaria. Le matrici con la sabbia rossa avevano messo in risalto una serie di segni emblematici e carichi di evocazioni spirituali. Partito dal disegno di un cerchio nella sabbia a simbolizzare la comune matrice spirituale a cui Tommaso e Gesù appartenevano, successivamente lo aveva diviso verticalmente nel mezzo assegnando a ciascuno la metà.Disegno e scrittura, entrambi quasi sillabati, distinguono queste dodici opere dove Kounellis chiama in causa la divisione tra l’anima e il corpo, il rapporto tra uomo e universo, tra pesci e uccelli, alberi della conoscenza e pietre filosofali, costellazioni e oggetti degli uomini: la luce di una lampada a petrolio (da Guernica) e una casa volante come tensione all’ascensione nello spazio libero dello spirito. L’ultima tavola evoca i ventiquattro profeti d’Israele, umani propugnatori della virtù etica e morale” (Bruno Corà). Il lavoro del 2014 è un ciclo di dodici stampe al carborundum (polvere di ferro), di grande formato, con l’impronta del cappotto nero, “saio laico dell’uomo del ‘900”, trovato come di consueto nel mercatino dell’usato, che perde ogni tipo di forma e costituisce una impronta “di memoria, indicazione di umanità”. “Il cappotto è fisicamente lì, non è rappresentato. L’impronta in resina lasciata sulla lastra essiccandosi ha trattenuto la polvere di ferro distribuita sopra.

Si è creata così una superficie ruvida in rilievo che trattiene l’inchiostro e lo trasferisce, per mezzo del torchio, sul foglio di carta da incisione. Riaffiora, a distanza di anni, la suggestione sedimentata delle impronte del suo maestro di Accademia Toti Scialoja che in quegli anni dipingeva, con stracci e stoffe, quadri “come tracce di vita” (Antonella Renzitti). Opus I è un portfolio di 47 fotolitografie, una summa in grafica di quarant’anni di ricerca artistica; la rivendicazione dello spazio della drammaticità dentro l’arte; la cultura mediterranea radicata nel mito e nella tragedia che s’incarnano nella storia; le carboniere e il loro contenuto; il tema del viaggio, fatidico rimando a quello di Odisseo «non una crociera nel Mediterraneo, ma un viaggio in verticale, nel profondo, scaturito da una guerra scatenata dal possesso di una donna», affermò Kounellis in un’intervista. Del portfolio si espongono 24 fogli.

La mostra è stata realizzata grazie alla collaborazione dell’Archivio Kounellis e della Stamperia d’arte Albicocco, con il prezioso sostegno di Bruno Corà.

Nel volume, edito da Gli Ori, oltre agli interventi di Federica Galloni e Maria Antonella Fusco sono presenti i saggi di Bruno Corà, Roberto Budassi e Antonella Renzitti e la testimonianza di Gianluca Albicocco. L’edizione è stata resa possibile grazie al sostegno della Direzione Generale per l’Arte, l’Architettura Contemporanee e le Periferie Urbane del MiBACT, diretta da Federica Galloni.

 Jannis-Kounellis-Senza-titolo-2014-carborundum-allestimento-Istituto-centrale-per-la-grafica-Palazzo-Poli-Riproduzione-fotografica-Stefano-Tubaro.

Jannis-Kounellis-Opus-I-47-2003-2005-fotoserigrafia-Foto-originale-Magdalena-Martinez-Franco-Riproduzione-fotografica-Antonio-Idini.






Via Poli,54
Roma
Tel. 0669980242
www.grafica.arti.beniculturali.it








giovedì 10 agosto 2017

HANS HARTUNG - PERUGIA.


 
 
PERUGIA

GALLERIA NAZIONALE DELL’UMBRIA

DAL 24 SETTEMBRE 2017 AL 7 GENNAIO 2018

 LA MOSTRA

HANS HARTUNG

POLITTICI


La rassegna presenta 16 opere di grandi dimensioni articolate in scomparti – come i polittici della Galleria Nazionale dell’Umbria – definiti Polyptiques dall’artista stesso e accompagnate da 40 lavori su carta

Dal 24 settembre 2017 al 7 gennaio 2018, la Galleria Nazionale dell’Umbria di Perugia ospita una mostra che celebra HANS HARTUNG (Lipsia, 1904 - Antibes, 1989), una delle figure di spicco dell’astrattismo europeo del Novecento.

La rassegna, curata da Marco Pierini, direttore della Galleria Nazionale dell’Umbria, organizzata in collaborazione con la Fondation Hartung-Bergman di Antibes, presenta 40 lavori su carta e 16 dipinti di grandi dimensioni, realizzati tra 1961 e 1988 (sei dei quali mai esposti prima) e a Perugia mostrati per la prima volta tutti assieme come serie.


Hans Hartung, Senza titolo, 1975, acrilico su cartone, 39.2 x 119 cm,
Collezione Fondazione Hartung-Bergman

 
 
Hans Hartung, Senza titolo, 1975, acrilico su cartone, 39.2 x 119 cm,
Collezione Fondazione Hartung-Bergman
 
 

    Hans Hartung, T1983-E14-E15-E16-E17-E18-E19 HEXAPTYQUE, 1983,
 acrilico su tela, 150 x 210 cm, Collezione Fondazione Hartung-Bergman



HANS HARTUNG. Polittici
Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria (corso Pietro Vannucci, 19)
24 settembre 2017 – 7 gennaio 2018

Informazioni: Tel. 075.58668415
Orari: da martedì a domenica, 8.30-19.30; lunedì 12.00-19.30
Biglietti (Galleria Nazionale dell’Umbria + mostra): Intero, € 8,00; ridotto, € 4,00.






 

giovedì 1 giugno 2017

VINCENZO AGNETTI - A cent’anni da adesso, MILANO, PALAZZO REALE


VINCENZO AGNETTI
A cent’anni da adesso

MILANO, PALAZZO REALE

4 LUGLIO – 24 SETTEMBRE 2017


Mostra antologica curata da Marco Meneguzzo con l’Archivio Agnetti, che racconta la vicenda creativa di uno dei maggiori esponenti dell’arte concettuale degli anni Settanta.
Dal 4 luglio al 24 settembre 2017, Palazzo Reale di Milano ospiterà la rassegna antologica dedicata a Vincenzo Agnetti (1926 – 1981), l’artista concettuale italiano che ha trasformato la parola in immagini iconiche e l’immagine in poesia.
La mostra A cent’anni da adesso, promossa e prodotta da Comune di Milano-Cultura, Palazzo Reale e Archivio Agnetti, curata da Marco Meneguzzo insieme all’Archivio Agnetti, ci invita, attraverso un’analisi critica e “sentimentale”, a riscoprire l’universo artistico di Vincenzo Agnetti cogliendone l’originalità, il rigore critico, la poetica e la straordinaria contemporaneità.
Sono esposte più di cento opere, realizzate tra il 1967 e il 1981, che nel loro insieme restituiscono un’immagine chiara del percorso dell’artista: la sua tensione poetica e visionaria, lo spiccato interesse per l’analisi dei processi creativi e per l’arte come statuto, il suo ruolo di investigatore linguistico e di sovvertitore dei meccanismi del potere, inclusi quelli della parola scritta, detta, tradotta in immagini limpide ed evocative, perché per Agnetti tutto è linguaggio: “Immagini e parole fanno parte di un unico pensiero. A volte la pausa, la punteggiatura è realizzata dalle immagini a volte invece è la scrittura stessa”
La parola in tutte le sue opere non si limita dunque ai rapporti semiologici, come spesso accade nell’arte concettuale di quegli anni, piuttosto realizza immagini, suggerisce indagini, costruisce narrazioni. Agnetti utilizza il paradosso visivo e concettuale per creare cortocircuiti interpretativi pronti per essere elaborati e rivisitati dall’osservatore, affidando al pensiero di chi guarda lo sviluppo e il senso di quanto ha scritto e immaginato. Per lui è sempre stato importante che il visitatore continuasse a vedere la mostra, con gli occhi della mente, anche dopo essere uscito dalla galleria.
“Con questo appuntamento riscopriremo uno dei più grandi artisti concettuali – afferma Marco Meneguzzo - Il suo concettualismo è diverso da quello anglosassone, americano, e anche da quello europeo; quello di Vincenzo Agnetti ha un risvolto metafisico e letterario, pieno della nostra cultura, vorrei dire mediterraneo, se oggi questo aggettivo non apparisse riduttivo”.
La parabola artistica di Agnetti è stata breve, muore a soli 54 anni nel 1981, ma così intensa e tumultuosa da rendere difficile tenerne le tracce in maniera compiuta. Per questo, forse, è in realtà ancora poco conosciuto e quindi da riscoprire nella sua poliedrica complessità; la mostra A cent’anni da adesso va in questa direzione.
L’esposizione ripercorre il sentiero mentale di Agnetti, non sempre affidandosi alla cronologia ma privilegiando il filo logico del discorso artistico che impone associazioni e salti tra periodi diversi per condurre il visitatore tra le pieghe del processo creativo.
In mostra non potevano mancare i lavori più noti:

 -Quando mi vidi non c’ero il suo Autoritratto: feltro grigio inciso a fuoco e colorato in compagnia di altri feltri, Ritratti e Paesaggi.

-Gli Assiomi: bacheliti nere incise con colore a nitro bianco che, attraverso paradossi, tautologie, illuminanti sintesi di pensiero, sono il contrappunto analitico della sua produzione.

-Il Libro dimenticato a Memoria, l’opera che maggiormente sintetizza la sua ricerca sulla memoria e la dimenticanza.
-La Macchina Drogata, la calcolatrice Divisumma 14 della Olivetti i cui numeri sono stati sostituiti con altrettante lettere dell’alfabeto, facendo seguire ad ogni consonante una vocale in modo che tutte le parole ottenute casualmente dalle operazioni, anche se prive di senso logico, fossero comunque supporto di intonazione, Da semplice calcolatrice incapacitata a svolgere la sua funzione diventa produttrice di opere d’arte dal forte impatto pittorico e iconico. E accanto alla macchina drogata troviamo infatti una parte della sua produzione: semiosi, comete, dissolvenze e la bellissima istallazione dell’Apocalisse.
Tra i lavori esposti si potrà ammirare la stanza dedicata all’Amleto Politico: 60 bandiere di tutte le nazioni del mondo che contornano il palco da cui l’Amleto di Agnetti arringa la folla, il monologo di questo Amleto Politico recitato dalla straordinaria voce di Agnetti che riesce a far parlare i numeri come fossero un discorso, perché l’Amleto Politico, come la macchina drogata e altre sue opere, è un’operazione di teatro statico.
Trovano posto molti dei suoi lavori più significativi fatti utilizzando la fotografia: alcuni più noti come l’Autotelefonata, Tutta la Storia dell’Arte in questi tre lavori, l’Età media di A, altri meno noti quali Architettura tradotta per tutti i popoli e altri quasi mai visti come Riserva di caccia.
Sull’uso della fotografia sono esposte opere frutto di procedimenti alterati e interrotti che esplicitamente alludono al rapporto mezzo-messaggio. Le Photo-graffie, carte fotografiche esposte alla luce e graffiate a raffigurare i paesaggi della mente occupano un posto particolare: sono tra gli ultimi lavori e tra essi troviamo Le Stagioni, accompagnate dalla poesia I dicitori, che inaugura un nuovo corso di Agnetti, più lirico e poetico.
Non poteva mancare una stanza dedicata all’istallazione 4 titoli surplace: quattro grandi sculture i cui titoli sono rappresentati da fotografie che sono quattro scatti di momenti della sua performance La lettera perduta. Una di queste è stata scelta come immagine della mostra.

Molti sono i lavori importanti che non riusciamo a citare tra questi le opere che rimandano alla sua ricerca sul tempo, una per tutte XIV-XX secolo, quattro affreschi del quattordicesimo secolo su cui Agnetti è intervenuto con scritte lapidarie.
Infine citiamo il sodalizio con alcuni grandi artisti per i quali ha scritto e con i quali ha collaborato tra cui Manzoni, Castellani, Melotti, Claudio Parmiggiani, Gianni Colombo e Paolo Scheggi con cui ha firmato il Trono, lavoro a quattro mani di grande forza visiva e concettuale che sarà esposto proprio a Palazzo Reale per la prima volta dopo quasi 50 anni dalla sua prima esposizione a Roma.

Vincenzo Agnetti nasce a Milano il 14 settembre del 1926, si diploma all’Accademia di Brera e prosegue gli studi alla Scuola del Piccolo Teatro. Dall’età di 20 anni scrive poesie e si sperimenta nel campo della pittura informale che presto abbandona disperdendone le tracce.

Dalla fine degli anni ’50 agli inizi degli anni ’60 la frequentazione di pochi amici tra cui Castellani e Manzoni gli permette di condividere ideali, progetti e aspirazioni artistiche. Nel 1959 pubblica per la rivista Azimuth i suoi primi “scritti proposizionali”, Non commettere atti impuri, la prefazione alle Tavole di Accertamento e l’Intervento per la Linea di Piero Manzoni. Nel 1962 inizia il suo periodo sudamericano dove lavora nel campo dell’automazione elettronica. E’ il periodo che egli definisce liquidazionismo arte no e di cui sono testimonianza i suoi quaderni di appunti dal titolo l’Assenza. Nel 1967 ritorna in Italia, continua la ricerca nel campo della critica dell’arte con alcuni scritti per amici artisti come Castellani e Melotti e con brevi saggi teorici sia pubblicati su riviste che recitati in monologhi. Sempre nel 1967 da inizio alla sua produzione artistica che si svilupperà con una intensità e una ricchezza che solo la premonizione di una fine prematura poteva spiegare. La produzione di opere si sussegue a un ritmo vorticoso che non impedisce ad Agnetti di spiegarne il senso con riferimenti precisi alla struttura e alla sua genesi.

Nel 1968 inaugura con il romanzo Obsoleto la collana Denarratori di Scheiwiller, con la copertina di Enrico Castellani e pubblica un’autoedizione della Tesi, che vedrà le stampe solo nel 1970.

Intanto Agnetti riparte per lavoro, prima in Norvegia e poi in Qatar, esperienze brevi ma che alimentano la sua attività artistica. L’avvicendarsi di mostre e di sue presenze nelle rassegne internazionali lo spingono a cimentarsi con tipologie di lavoro che utilizzano estetiche differenti pur continuando uno stesso discorso. Dal ‘73 apre uno studio anche a New York, dove vivrà in modo intermittente, iniziando quel pendolarismo Milano-Grande Mela che sarà un motore di ispirazione importante della sua attività. Il 1 settembre 1981 muore improvvisamente a Milano lasciando un’opera incompiuta Il Lucernario e alcuni versi, scritti poco prima a New York, che terminavano così: Prima della breve sera / torneremo alle armi / Saremo in Terra in Sole in Aria. / Poi col suonatore di fiori. Forse.

L’ingresso alla mostra è libero. Il percorso espositivo inizia al piano terra di Palazzo Reale con un bookshop - sala di lettura aperto ai visitatori della mostra ‘VINCENZO AGNETTI. A cent’anni da adesso’ e ‘Giancarlo Vitali. Time Out’.



 
 Vincenzo Agnetti, Autotelefonata (yes), 1972 (40 x 126 cm)
Courtesy Collezione Emilio e Luisa Marinoni

 
 

Vincenzo Agnetti, Assioma,
 La luce era la più lenta perchè anche il vuoto riusciva a frenarla, 1971 (80 x 80 cm).
 Courtesy Archivio Vincenzo Agnetti

 
 
Vincenzo Agnetti, Autoritratto, 1971 (120 x 80 cm).
 Courtesy Archivio Vincenzo Agnetti
 

 
 
 Vincenzo Agnetti, Progetto per un Amleto politico, 1973 (Mart).
 Courtesy Archivio Vincenzo Agnetti. Foto di Salvatore Licitra

 

 Vincenzo Agnetti, Surplace, 1979.
Courtesy Archivio Vincenzo Agnetti
 
 
  
 Vincenzo Agnetti, Ritratto di amante, 1971 (80 x 120 cm).
Courtesy Archivio Vincenzo Agnetti

 
 

Vincenzo Agnetti, Assioma,
The word stripped of ambiguity of language becomes a universal tool,
1971 (70 x 70 cm). Courtesy Archivio Vincenzo Agnetti
 



 Milano, maggio 2017

VINCENZO AGNETTI. A cent’anni da adesso

Milano, Palazzo Reale

4 luglio – 24 settembre 20

Ingresso gratuito

Orari:

lunedì: 14.30-19.30
martedì, mercoledì, venerdì e domenica: 9.30-19.30
giovedì e sabato: 9.30-22.30
(ultimo ingresso un’ora prima della chiusura)


Siti internet:

www.palazzorealemilano.it
www.vincenzoagnetti.com








sabato 27 maggio 2017

RAIMONDO BONAMICI - Orphaned forms - Project Public Art European - Brussels.


Project Public Art European EU funded Projects

RAIMONDO BONAMICI

Orphaned  forms

2 - 24 - 06  -  2017

Rue Traversière,3 Brussels,1210
BELGIUM


The surface is a permanent gatherer of energy attracting shapes and images indulged, time after time, in the space where the black is situated and it refers to mental states and conditions formed in their entirety. The language through the schematic use tends to lend itself with the same universal feeling of representation as it concerns each different shape, finds the appropriate setting in the surface, in compliance with a memory belonging to art, searching for a rivalry with reality; rather it retreats into the typical place of its creation, in the unattainable recesses of an imagination that does not deal anymore with clashes against the world but instead remains within the shape (...)


Raimondo Bonamici’s painting expands throughout the primary space, organizing the surface of the work by using black and white. Black is made accomplice how the shadow is for darkness, it enters into infinity, searching for light that makes it living, joining it to explore the deepest resonances in the imagination, on the invisibility of the painting itself, abandoning the white surface in the absolute silence, through the contin uous dialogue that characterizes the beginning of Bonamici’s research. Bonamici radicalizes the meaningful action by using the surface as a mean and not as an end; in this manner shapes morph into an aggregation point of various, conceptual and mental elements which are related among them. Any shape complies with a work, a continuous image (...)

In 2016 Bonamici is able to stimulate our capacity of understanding and to instil collective memories, dreams and visions through common circular shapes. These simple motifs constitute his repertoire of works. In this repertoire, when many of his works are placed together, it is not the picture itself, but the World to open up, and this is what Bonamici is interested in (...)

ARCHITECTURE AND ART – HAMBURG 2013. The artist Raimondo Bonamici is awarded the Free art in the free world 2013 prize for his project “Io appartengo alla terra” (I belong to Earth). For the message contained in his work which is the result of his exclusive intellectual, conceptual and professional dedication. For the authority he shows to express, through his work, the widest thought of freedom.



Raimondo Bonamici: Orphaned  forms,  2017. 
Mixed media installation, variable dimensions.


Raimondo Bonamici: Orphaned  forms,  2017. 
Ultrachrome ink on cotton paper 2 parts,  200 x 150 cm each / Edition of 2.


Raimondo Bonamici: Orphaned  forms,  2017. 
Ultrachrome ink on cotton paper,  100 x 150 cm / Edition of 3.




Rue Traversière,3 Brussels,1210
BELGIUM

www.archivioarb.it

Ingresso gratuito
Orari:
lunedì: 14.30-20.30
martedì, mercoledì, venerdì: 14.30-20.30
giovedì e sabato: 16.30-20.30










domenica 7 maggio 2017

MEMORY AND CONTEMPORANEITY - VENEZIA 2017

MEMORY AND CONTEMPORANEITY

Evento collaterale della 57. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia

VENEZIA - ARSENALE NORD - TESE 98-99

DAL 13 MAGGIO AL 26 NOVEMBRE 2017


UN INCENDIO SULLA NAVE CHE PORTAVA LE OPERE DEGLI ARTISTI CINESI, OBBLIGA GLI ORGANIZZATORI A MODIFICARE IL PERCORSO ESPOSITIVO.

Un incendio ha colpito una delle più grandi navi porta container del mondo, la Msc "Daniela", mentre si trovava al largo di Colombo, capitale dello Sri Lanka.

Il cargo trasportava le 52 opere dei 17 artisti cinesi contemporanei, ovvero il nucleo della mostra Memoria e Contemporaneità – Memory and Contemporaneity, Evento Collaterale della 57. Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia, promossa da The Palace Museum di Pechino, organizzata da Pegasus Media in collaborazione con First Italy Limited, con la cura di Davide Rampello, Gianfranco Maraniello, Wang Yamin, Sun Jianjiun.
Malgrado questo incidente, che impedirà di aprire la mostra con il percorso espositivo pensato originariamente, gli organizzatori hanno comunque deciso di confermare l’inaugurazione giovedì 11 maggio 2017, alle 11.00, e di offrire al pubblico un nuovo progetto allestitivo.
Le parole di Davide Rampello riassumono le motivazioni di questa conferma: “Cosa è dunque successo perché l'evento accada comunque? Nessun miracolo, ma, molto più semplicemente, un'avventura. Quella che i curatori della mostra hanno deciso di intraprendere, raccogliendo la sfida a cui “l’incidente” li ha chiamati con quel calamitoso incendio. Da qui la scelta di proporre ugualmente l'evento intitolato “Memoria e Contemporaneità”, mantenendo così come erano i primi due tempi del percorso espositivo, e trasformando il terzo, che doveva essere dedicato all'esposizione delle opere, in una provocatoria meditazione sulla loro assenza”.
Secondo il disegno originario, il primo tempo, concepito come “prologo”, consiste in una totalizzante immersione, attraverso immagini e installazioni, nei tesori che la Città Proibita irradia da seicento anni a questa parte: dall'inizio del XV secolo, quando l'immensa dimora imperiale veniva eretta a Pechino dalla dinastia Ming, a un'attualità in cui si ritrova tramandata, contaminata e ricreata in molteplici idiomi linguistici, storici, visivi, filosofici.  
Nel secondo tempo, che assume le modalità del “dialogo”, questo lascito della cultura cinese diventa risorsa, ereditata da cinque maestri del design italiano, messi nelle condizioni di esperire creatività e ingegno a contatto non solo con temi e linguaggi di quell'arte, ma anche con la materia in cui storicamente si manifesta: legno, seta, ferro, ceramica. Da queste interazioni nascono la sedia di Antonio Citterio, la lampada di Michele De Lucchi, la poltrona di Stefano Giovannoni, la madia di Piero Lissoni, il tavolo di Italo Rota, opere accompagnate dai video che raccontano il backstage delle loro creazioni.
Tutto è pronto per un terzo tempo, annunciato dai diciassette corti girati negli atelier dei 17 artisti cinesi contemporanei - Xu Bing, Gu Wenda, Qiu Zhijie, Feng Lianghong, Song Dong, Sui Jianguo, Li Songsong, Song Ling, Leng Bingchuan, Zhu Bingren, Geng Xue, Peng Wei, Jiang Jian, Li Hongbo, Zhang Qikai, Li Mingwei, Shang Yang - impegnati a realizzare le proprie creazioni che riflettono sul passato della Cina che diventa memoria artistica, culturale e spirituale. I lavori interpretano la memoria della Cina e la sua storia millenaria.
Sono immagini da cui prende corpo un diffuso senso di imminenza, su cui si posa invece il coup de théâtre inesorabile di quella notizia giunta dallo Sri Lanka: “Cargo in fiamme, opere della Biennale bloccate”.
“E così il percorso prosegue – sottolinea ancora Rampello - seguendo il tragitto di una simbolica e sempre più netta presa di coscienza dell’accaduto. Ora rievocandone le tracce sensibili attraverso un racconto, ora cercando orientamento tra le profonde risonanze delle parole di un “prontuario etimologico dell’accadimento”, ora scontrandosi con la visione gigantografica del cargo in fiamme. Ecco la rappresentazione di ciò che non è mai stato. L’opera incompiuta che si compie nello sguardo di chi la contempla. L’astratta simulazione di una realtà non ancora accaduta. Contemporaneità che si fa, dunque, Memoria”.
L’obiettivo dell’iniziativa, quello di riflettere sul valore e sul destino dell’arte nella Cina odierna, non vien meno. Negli ultimi decenni, l’arte cinese contemporanea ha visto l’affermazione di un’importante generazione di artisti e la nascita di nuove gallerie e di collezionisti; a questi si aggiunge la repentina creazione di musei e di formidabili accademie e università che stanno favorendo un ampio pubblico, informato e consapevole.
Come afferma Gianfranco Maraniello, “Memory and Contemporaneity non è solo l’occasione di osservare i lavori di alcuni dei più interessanti artisti cinesi della scena recente, ma è il tentativo di considerare più profonde radici in una tradizione culturale che, a partire dall’immaginario della Città Proibita, si apre a valori non omologati per l’arte contemporanea”.
Questo sarà da subito garantito attraverso l’esposizione di un piccolo nucleo di lavori (che non erano sulla nave cargo) e, successivamente, con l’allestimento di tutte le altre opere previste, una volte giunte a Venezia.




Qui Zhijie, Memory is not Reliable, inchiostro / ink painting, 2016



Li Songsong, Beihai, acrilico su tavola / acrylic on board, 2016



Peng Wei, Letters From a Distance, seta / silk, 2012>2017



Li Hongbo, Untitled, carta / paper, 2016




Li Hongbo, Untitled, carta / paper, 2016




Venezia, maggio 2017

MEMORY AND CONTEMPORANEITY

Evento Collaterale della 57. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia

Venezia, Arsenale Nord - Tese 98-99

La mostra sarà aperta al pubblico dal 13 maggio al 26 novembre 2017

La mostra è accompagnata da un catalogo.

Orari:

dal martedì alla domenica, 10.00 - 18.00 (dal 13 maggio al 30 settembre,
sabato e domenica: 10.00 - 20.00)


Chiuso il lunedì (escluso lunedì 15 maggio, 14 agosto,
4 settembre, 30 ottobre e 20 novembre)

Ingresso: libero





mercoledì 26 aprile 2017

JAN FABRE - ABBAZIA DI SAN GREGORIO - VENEZIA


JAN FABRE
GLASS AND BONE SCULPTURES 1977-2017

Evento collaterale della 57. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia

VENEZIA - ABBAZIA DI SAN GREGORIO

DAL 13 MAGGIO AL 26 NOVEMBRE 2017

La mostra presenta, per la prima volta insieme, oltre 40 opere in vetro e ossa, realizzate dall’artista belga in un quarantennio di lavoro, tra il 1977 e il 2017, che innescano una riflessione filosofica, spirituale e politica sulla vita e la morte attraverso la centralità della metamorfosi.

A cura di

Giacinto DI PIETRANTONIO, Direttore GAMeC, Bergamo

Katerina KOSKINA, Direttore EMST, Atene

Dimitri OZERKOV, Responsabile del Dipartimento di Arte Contemporanea del The State Hermitage Museum, San Pietroburgo

Jan Fabre torna a Venezia, con un progetto inedito, appositamente studiato per gli spazi dell’abbazia di San Gregorio, situata tra il ponte dell’Accademia e la punta della Dogana.

Evento collaterale della 57. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, dal 13 maggio al 26 novembre 2017, la mostra Jan Fabre. Glass and Bone Sculptures 1977-2017, curata da Giacinto Di Pietrantonio, Katerina Koskina e Dimitri Ozerkov, promossa dalla GAMeC - Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo, in collaborazione con EMST – National Museum of Contemporary Art di Atene e The State Hermitage Museum di San Pietroburgo, presenta oltre 40 sculture di Jan Fabre (Anversa, 1958), in grado di ripercorrere la sua ricerca fin dalle origini, innescando una riflessione filosofica, spirituale e politica sulla vita e la morte attraverso la centralità della metamorfosi.

Per la prima volta, saranno riuniti insieme lavori in vetro e ossa, realizzati nell’arco di un quarantennio, tra 1977 e il 2017.

Affascinato dall’alchimia e dalla memoria dei materiali, Jan Fabre si è ispirato alla tradizione pittorica dei maestri fiamminghi che erano soliti miscelare ossa triturate con i pigmenti colorati e all’artigianalità dei vetrai veneziani. L’artista ha deliberatamente scelto questi due materiali duri, che sono forti a dispetto della loro delicatezza e fragilità, per mettere in risalto la durezza e la fragilità della vita stessa.

“La mia idea filosofica e poetica - ricorda Jan Fabre – che riunisce assieme il vetro con le ossa umane e animali, nasce dal ricordo di mia sorella che da bambina giocava con un piccolo oggetto di vetro. Questo mi ha fatto pensare alla flessibilità dell’osso umano in confronto con quella del vetro. Alcuni animali e tutti gli esseri umani escono dal grembo materno come il vetro fuso esce dal forno di cottura. Tutti possono essere modellati, curvati e formati con un sorprendente grado di libertà”.

I due materiali modellano parti e insiemi di corpi umani e animali: a volte, questi mantengono la loro naturalezza cromatica; altre volte, sono dipinti con il colore blu tipico della penna a sfera Bic che l’artista usa da anni per raccontare l’Ora Blu, ovvero quel momento crepuscolare in cui avviene il passaggio dalla notte al giorno o viceversa, che segna il punto di confine e di mutamento del tempo naturale.

“Infatti - afferma Giacinto Di Pietrantonio - al titolo Glass and Bone, potremmo aggiungere Blue Bic Ink. La materia, nel lavoro di Fabre, non è celebrata in senso fenomenico, ma è usata come messaggera di arcane simbologie connesse con la sua essenza stessa. Nella sua ricerca, Fabre non persegue un’arte che valuta la storia come prodotto del presente, ovvero della sociologia, quanto come lotta che si dispiega all’interno di una materia la cui memoria si è dissolta nelle profondità del tempo”

La dialettica tra ossa e vetro, che è poi quella che s’instaura, ad esempio, tra durezza e fragilità, tra opacità e trasparenza, tra ombra e luce, tra tangibile e intangibile, tra vita e morte, è al centro della poetica di Fabre. Quella dell’artista fiammingo è un’arte che ruota attorno all’instabile stato della metamorfosi e ai cambiamenti nel flusso dell’esistenza. Come il vetro, anche le ossa non sono indistruttibili. Al pari del vetro, le ossa si spezzano mostrando la fragilità e precarietà umana.

“Le sculture in vetro e ossa di Jan Fabre – dichiara Katerina Koskina – sono una tacita allusione alla brevità della vita sulla terra e alla nostra mortalità. Allo stesso modo, la connessione tra ossa e vetro allude alla fragilità e alla caducità dell’esistenza umana. Le ossa e la lucentezza del vetro, rispettivamente simboli di morte e di opulenza, condividono la precarietà della vita umana che ha solo un breve sprazzo di tempo nel quale godere della bellezza prima che il corpo si trasformi in uno scheletro”.

Dal canto suo, Dimitri Ozerkov sottolinea che “Fabre cristallizza sia le ossa che il vetro e li rende sacri. E fa lo stesso con l’esistenza umana nella sua mistica presenza temporale nella realtà, guidata dall’immaginazione. Per lui, l’immaginazione artistica è la prova più evidente dell’esistenza umana, e la trova da qualche parte, tra le ossa e il vetro, tra il corpo e l’anima”.

 Lungo tutta la sua carriera, Fabre si è sempre confrontato con questi due materiali; fin dal 1977, quando realizzò The Pacifier, un ciucciotto realizzato in osso, ma avvolto da schegge di vetro che non può essere usato a meno che non ci si voglia ferire. E di vetro era l’altare primitivo di ossa umane di The Future Merciful Vagina and Phallus (2011) sulla cui sommità c’erano un osso pelvico e un fallo.

Nella ricerca di Jan Fabre, le ossa si associano alla morte. Nella Pietas, presentata durante la Biennale d’Arte del 2011 alla Nuova Scuola Grande di Santa Maria della Misericordia a Venezia, che riproduceva in scala 1:1 la Pietà di Michelangelo, il volto della Madonna era stato sostituito da un teschio, immagine della morte.

Jan Fabre (Anversa, 1958). Note biografiche

Per oltre 35 anni, Jan Fabre è stato uno delle più innovative e importanti figure del panorama dell'arte contemporanea internazionale. Come artista visivo, sceneggiatore teatrale e autore, Fabre riflette sulla vita e la morte, sulle trasformazioni fisiche e sociali, oltre che sulla rappresentazione crudele e intelligente di animali ed esseri umani. Jan Fabre è stato il primo artista vivente a tenere una grande mostra al Museo del Louvre di Parigi (L'ange de la Métamorphose, 2008) e al Museo di Stati di San Pietroburgo (Knight of Despair / Warrior of Beauty, 2016-2017).



Jan Fabre, Canoe (1991) Size: 177,5 cm x 638,3 cm x 220 cm Techn: Murano Glass, Animal and Human Bones, Bic Ink, Polymeers Behind from left to right:
 
Jan Fabre, Detail of Untitled (Bone Ear) (1988) Size: 180 cm x 250 cm Techn: Glass, Human Bones, Bic Ink Photographer: Pat Verbruggen Copyright: Angelos bvba
 
Ja Fabre, Listen (1992) Size: 17,3 cm x 10,1 cm x 13,4 cm Techn: Glass, Bic Ink, Human Bones, Plaster Photographer: Pat Verbruggen Copyright: Angelos bvba

 Jan Fabre, Monk (Paris) (2004) Size: 163,3 cm x 79,1 cm x 49,1 cm Techn: Human Bones, Iron Wire Collection: Courtesy Gallery Daniel Templon, Paris--‐Brussels Photographer: Pat Verbruggen Copyright: Angelos bvba

Jan Fabre, The Pacifier (1977) Size: 6,8 cm x 6,8 cm x 9,8 cm Techn.: Glass, Human Bones, Bic Ink, Wood Photographer: Pat Verbruggen Copyright: Angelos bvba


JAN FABRE. GLASS AND BONE SCULPTURES 1977-2017

Evento collaterale della 57. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia

Venezia, Abbazia di San Gregorio (Dorsoduro 172)

La mostra sarà aperta al pubblico dal 13 maggio al 26 novembre 2017

Orari: 11.00-19.00

Ingresso libero

Catalogo: Forma edizioni

 

 

domenica 23 aprile 2017

Raimondo Bonamici, cataloghi 2016 – 2017


 
Cataloghi  esposizioni,  multipli,  2016 – 2017

 
 

MAURO NAVARRA - Schizzi di luce.


MAURO NAVARRA
Schizzi di luce

Dal 22 Aprile al 13 Maggio 2017
Emystudio
Via Costanzo Casana, 260
Ostia lido, Roma


 
Visioni di luce 
Quando piove su lamiera ondulata, quel ticchettio può diventare musica. Quando una lamiera ondulata chiude un passo investita  dalla luce, può assurgere a opera d’arte?  Si

 A questo mira Navarra. Egli stesso ci racconta: “… in realtà l’incontro tra luce e la superficie metalliche ò tutt’altro che banale. La luce entra nelle pieghe, ne attraversa i buchi, incespica sui graffi, si sporca di terra e di colore …”
 
Fu proprio nel Rinascimento che alcuni studiosi estesero il concetto di casualità e si scoprì allora il significato che gli attribuiva Platone, cioè il “ricettacolo” della materia informe che è all’origine del mondo. Primo fra tutti fu Leonardo che si dedicò all’indagine su ciò che appare indistinto, senza regole, che però può essere di stimolo alla creazione: “ Non isprezzare questo mio parere, nel quale ti si ricorda che non ti sia grave il fermarti alcuna volta a vedere nelle macchine de’muri, o nelle ceneri del fuoco, ne’ quali, se ben saranno da te considerati, tu troverai invenzioni mirabilissime, che destano l’ingegno del pittore a nuove invenzioni …” ( tratto della pittura). Navarra coglie in pieno la lezione di Leonardo. Egli, da buon fotografo, scopre le ondulate lamiere arrugginite, inizia ad esplorare, ne costruisce intorno uno spazio mentale, sfrutta una luce scegliendo un punto di vista privilegiato e... clik! E’ chiaro che quello che si può fare con la macchina fotografica non si può fare con nessun altro strumento, ma la fotografia ti porta a fare delle scelte in certi particolari momenti e in certe situazioni limite. L’oggetto a cui Navarra mira è una traccia come l’orma del piede sulla sabbia in riva al mare: può perdersi in un solo istante. Egli coglie tutte le sfumature possibili che la frontalità gli nega e la ritrova con sgargianti giochi di colore. Un raggio di luce, sui percorsi curvi, devia la sua traiettoria per rifrazione, ma accade che la luce rimane intrappolata nella scannellatura della lamiera e riflessa dalla superficie più alta con indice di rifrazione diversa; questo comporta, nella complessità della situazione, un adattamento continuo e veloce, una padronanza della tecnica fotografica, complimentata dalla sensibilità di operare delle scelte. Sogni pensieri, visioni e miraggi sono evocati; in un attimo si passa dalla realtà al surreale, dall’ esistenza del mondo che conosciamo, alla vita nel sogno, dalla percezione della nostra condizione umana all’utopia. Il nostro cervello è in grado di vivere due esistenze: in una siamo protagonisti e nell’altra rimaniamo governati dai suoi capricci fantastici. E’ in questo girovagare del nostro cervello, dall’esistenza reale a quella onirica che si forma il nostro bagaglio di esperienza, tra vissuto concreto e immaginazione. Ed è proprio la capacità immaginativa che ci illustra l’opera di Navarra attraverso la sua fotografia. Navarra è un giovane di grande sensibilità e la sua ricerca ci dona una visione del mondo reale al limite della realtà stessa, dove le immagini sono convogliate al dominio della fantasia; egli non rappresenta l’oggetto, ma l’impulso poetico col quale traduce in linguaggio visivo il suo sentire, le emozioni, il mondo interiore. Ne deriva, così, il rapporto molto stretto tra immagini e le sensazioni provate dall’autore, e il fruitore - ponendosi davanti ad esse - non può non restare affascinato dal colore dalle forme astratte realizzate.

Questa mostra evidenzia più funzioni: può essere intesa dall’amatore d’arte come raccolta di opere. Può essere guardata dall’amatore di fotografia come una splendida raccolta di foto. Può essere letta, alternativamente, come raccolta di confessioni d’arte di vita dell’autore, a scelta. Infine, può diventare un discorso che va al di là della personalità in gioco, perché investe sia il problema estetico che il valore della fotografia.

Haebel - marzo 2017
 



 
EMYSTUDIO, Via Costanzo Casana, 260 - 00121 Ostia Lido - Roma

Orario 10,30/12,30 - 16,30/19,30

 Tel.06/5694890
 

martedì 11 aprile 2017

ALFREDO PIRRI - MACRO Testaccio - ROMA


 
12/04 - 04/06/2017

Alfredo Pirri - i pesci non portano fucili

 MACRO Testaccio - Roma


Padiglione B
Prima antologica dedicata ad Alfredo Pirri, artista nato a Cosenza nel 1957 e che vive e lavora a Roma ormai da molti anni. Il suo lavoro spazia tra pittura, scultura, lavori su carta e opere ambientali.
Quella del Macro Testaccio rappresenta la tappa conclusiva del progetto I pesci non portano fucili, un viaggio all’interno dell’opera, del pensiero e della ricerca dell’artista che è iniziato nel novembre 2016 con la prima mostra RWD / FWD, allestita presso lo Studio/Archivio dell’artista. Il titolo del progetto è stato scelto dallo stesso Pirri in omaggio all’opera The Divine Invasion di Philip K. Dick (1981), in cui l’autore immagina una società disarmata e fluida come il mare aperto dentro il quale immergersi e riemergere dando forma ad avvenimenti multiformi. Tutto il progetto viene proposto come un nuovo possibile modello di rete culturale, fortemente sostenuto da Pirri, in cui ogni istituzione coinvolta è autonoma ma in costante dialogo con le altre.
L’esposizione riunisce 50 opere tra le più importanti e significative realizzate dall’artista nel corso della sua carriera dagli anni ‘80 ad oggi, sottolineando l’alternarsi ritmico di fluidità e fissità, dove i repentini mutamenti di tecnica diventano allegoria di un tempo mentale, scandito dagli elementi che da sempre contraddistinguono la ricerca dell’artista: lo spazio, il colore e la luce.
“Questa mostra, come afferma il curatore Ludovico Pratesi, permette una lettura completa e ragionata della complessità della ricerca di Alfredo Pirri, attraverso un itinerario espositivo strutturato come un’opera in sé. Lo spazio del Macro Testaccio viene interpretato dall’artista in maniera da sottolineare le componenti fondamentali del suo pensiero, per invitare il visitatore a condividere un’esperienza immersiva giocata sull’armonia tra spazio, luce e colore”.
La mostra si snoda attraverso un percorso articolato in cui il tema della città, intesa non solo come agglomerato urbano ma come spazio aperto, luogo di condivisione e di incontro, è declinato in varie sfaccettature, attraverso una profonda rielaborazione dello spazio architettonico stesso e qui diviso in due sezioni principali.
Apre la mostra l’opera che l’artista ha realizzato nei mesi di ricerca all’interno del laboratorio allestito alla Nomas Foundation: Quello che avanza (2017), prosecuzione dello studio sulla luce e il colore che da sempre caratterizza la sua poetica. Costituito da 144 stampe, il lavoro è frutto di una ricerca sulla tecnica della cianotipia, che consente di realizzare immagini fotografiche off-camera di grandi dimensioni, caratterizzate da intense variazioni di blu. Di queste stampe, 130 testimoniano le fasi di lavorazione di un’opera e i residui da essa prodotti, mentre 14 sono il risultato di una procedura unica, che vede l’uso di piume appoggiate direttamente a impressionare i fogli preparati con sostanze chimiche ed esposti ai raggi UV.

Tra le altre opere scelte, Gas (1990), lavoro che combina elementi concettuali e minimalisti, capace già nel titolo, di evocare una materia invisibile che attraversa e riempie lo spazio circostante; le Squadre plastiche (1987-88), con la loro immobilità di testimoni mute e contemporaneamente la loro pittura che si riverbera sulla parete come energia viva; Verso N (2003), installazione in cui i frammenti costruiscono un orizzonte immaginario, un paesaggio spirituale attraversato da fasci di luce che si irradiano nello spazio riflettendo i colori della pittura; La stanza di Penna (1999), costituita da copertine di libro disposte in modo da creare uno skyline urbano, paesaggio bagnato da una luce diffusa che ricorda i colori del tramonto.
A fare da raccordo tra le due sezioni l’opera Passi, che assume la valenza di una soglia. Si tratta di un’installazione site specific costituita da pavimenti di specchi che si frantumano sotto i passi dell'artista e dell'osservatore, creando narrazioni deformate che promuovono un dialogo dialettico con lo spazio circostante, la sua natura e la sua storia.
Come spiega la curatrice Benedetta Carpi de Resmini: “Alfredo Pirri ha sperimentato negli anni molteplici linguaggi espressivi spaziando dalla pittura alla scultura, dal video alla performance, ma è soprattutto la sua concezione del rapporto spazio – temporale, mediato dal lavoro che genera l’opera, che si presenta allo spettatore come una palingenesi: una nuova visione della realtà e della città. Lo spazio architettonico si trasforma così in supporto-tela su cui Pirri “dipinge” vuoti e pieni, luci e ombre, in una meditata metamorfosi che ne esalta i valori cromatici, concettuali e simbolici “.


Alfredo Pirri è nato a Cosenza nel 1957 ma vive e lavora a Roma ormai da molti anni. Il suo lavoro spazia tra pittura, scultura, lavori su carta e opere ambientali. Il suo linguaggio evidenzia una continua attenzione allo spazio, alla superficie, al colore, creando dei veri e propri ambienti di luce. Ogni opera diventa un luogo spaziale, emozionale e temporale, dove l'osservatore ha la possibilità di entrare per immergersi in esperienze cromatiche che lo destabilizzano e lo disorientano. Collabora con architetti per la realizzazione di progetti multidisciplinari, in cui arte e architettura dialogano in modo armonico.

A corredo dell’intero progetto sarà pubblicato un catalogo edito da Quodlibet con testi inediti di: Benedetta Carpi De Resmini, Maria Vittoria Marini Clarelli, Ilaria Gianni, Soko Phay, Ludovico Pratesi, Paola Tognon, Stefano Velotti e una conversazione tra Hou Hanru e Alfredo Pirri.

Curatori Benedetta Carpi De Resmini e Ludovico Pratesi


 
 
 
 
 
 
 

 Luogo
MACRO, MACRO Testaccio
Orario
Dal 12 aprile al 4 giugno 2017
Mar-dom ore 14.00-20.00
Chiuso lunedì
La biglietteria chiude 30 minuti prima
Biglietto d'ingresso
MACRO Testaccio
- Intero: € 6,00
- Ridotto: € 5,00
Per i cittadini residenti nel territorio di Roma Capitale (mediante esibizione di valido documento che attesti la residenza):
- Intero: € 5,00
- Ridotto: € 4,00

MACRO Via Nizza
- Intero: € 11,00
- Ridotto: € 9,00
Per i cittadini residenti nel territorio di Roma Capitale (mediante esibizione di valido documento che attesti la residenza):
- Intero: € 10,00
- Ridotto: € 8,00
Biglietto cumulativo MACRO Via Nizza + MACRO Testaccio (valido 7 gg. per 1 solo ingresso a sito)
- Intero: € 13,50
- Ridotto: € 12,50
Per i cittadini residenti nel territorio di Roma Capitale (mediante esibizione di valido documento che attesti la residenza):
- Intero: € 12,50
- Ridotto: € 11,50

Informazioni  Tel. +39 060608 (tutti i giorni ore 9.00-19.00)
 











PIETRO FORTUNA - S.I.L.O.S - MACRO Testaccio - ROMA


12/04 - 04/06/2017

PIETRO FORTUNA  - S.I.L.O.S

 MACRO Testaccio - ROMA

Padiglione A
Il progetto vuole ricostruire il percorso dell’artista, nato a Padova nel 1950 e residente tra Roma e Bruxelles, proponendo una lettura antologica di temi e modalità fondanti del suo lavoro. Non si tratta di una rassegna cronologica, ma di un osservatorio che mette in luce come per Pietro Fortuna il processo e l’ideazione siano sempre stati preminenti rispetto all’esito.
Nel ciclo di opere esposte (raccolte sotto il titolo di S.I.L.O.S, del 2017, tutte realizzate appositamente per questa occasione) si condensa il senso del fare come prassi e come nucleo teorico, come rivendicazione di autonomia, come possibilità, e diritto, dell’arte a essere improduttiva.
“L’arte è profezia e non previsione”, dichiara l’artista, e tutto quello che accade rispetto all’opera accade senza progetto (cioè senza un sentimento di attesa rispetto a un compimento futuro), nel suo manifestarsi come forma del divenire: senza quel finalismo che caratterizza la produzione, non solo culturale, contemporanea. Come scriveva nel 1995 Rocco Ronchi, a proposito del lavoro di Fortuna, è “a questa loro sorprendente indipendenza dal tempo che tali forme del fare devono quel loro senso di quiete, di perfezione e di inutilità che infondono nell’osservatore”.
L’umanesimo di Fortuna si distanzia da quell’individualismo che si realizza nella dialettica tra interrogazione privilegiata e risposte necessarie. Forse in questo si trovano le ragioni del suo pensiero: il fare coincide con il tempo e lo spazio per una cerimonia più vicina alla vita, a come questa si mostra. “Il fare, qui come altrove,” scrive ancora Ronchi “è un gesto compiuto che non domanda nulla al tempo, pur impiegandolo.”

 Pietro Fortuna nasce a Padova nel 1950 e vive tra Roma e Bruxelles. Studia architettura e filosofia e ancora giovanissimo collabora a importanti realizzazioni sceniche per il San Carlo di Napoli, La Scala di Milano e la Fenice di Venezia.
Negli anni ‘80 è presente alla XVI Biennale di San Paolo, alla Galleria Comunale d’Arte Moderna di Bologna, a Ville Arson a Nizza, al Kunstler House a Graz, al Frankfurter Kunstverein, alla XII Biennale di Parigi. Negli anni ’90 realizza nuovi cicli di opere con installazioni e lavori di grande formato con cui è presente al Palais de Glace di Buenos Aires, alla Galleria d’Arte Moderna di San Marino, al Museo d’Arte Moderna di Bogotà, alla Galleria Comunale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, a Le Carré Musée Bonnat di Bayonne e al Museo Pecci di Prato. Negli stessi anni fonda Opera Paese un luogo per la cultura in cui s’incontrano importanti figure dell’arte, della musica, e del pensiero, da Philip Glass a Jan Fabre, da Pistoletto a Kounellis, da Carlo Sini a Kankeli. Negli ultimi anni seguono altre personali al Watertoren Centre for Contemporary Art di Vlissingen, alla XII Biennale Internazionale della Scultura di Carrara, al Tramway di Glasgow, alla Fondazione Morra di Napoli, al Macro di Roma, al Marca di Catanzaro, alla Quadriennale di Roma e alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma.

 Curatore  Pietro Gaglianò







 
 
 

 Luogo
MACRO, MACRO Testaccio
Orario
Dal 12 aprile al 4 giugno 2017
Mar-dom ore 14.00-20.00
Chiuso lunedì

La biglietteria chiude 30 minuti prima
Biglietto d'ingresso

MACRO Testaccio
- Intero: € 6,00
- Ridotto: € 5,00
Per i cittadini residenti nel territorio di Roma Capitale (mediante esibizione di valido documento che attesti la residenza):
- Intero: € 5,00
- Ridotto: € 4,00

 MACRO Via Nizza
- Intero: € 11,00
- Ridotto: € 9,00
Per i cittadini residenti nel territorio di Roma Capitale (mediante esibizione di valido documento che attesti la residenza):
- Intero: € 10,00
- Ridotto: € 8,00

 Biglietto cumulativo MACRO Via Nizza + MACRO Testaccio (valido 7 gg. per 1 solo ingresso a sito)
- Intero: € 13,50
- Ridotto: € 12,50
Per i cittadini residenti nel territorio di Roma Capitale (mediante esibizione di valido documento che attesti la residenza):
- Intero: € 12,50
- Ridotto: € 11,50

Informazioni
Tel. +39 060608 (tutti i giorni ore 9.00-19.00)